PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - LA PACE E’ LA CASA DI TUTTI

INTRODUZIONE

Il presidente Kennedy ebbe le prove dell'armamento russo di Cuba giovedì 16 ottobre 1962. Era a colazione, nella sala della Casa Bianca a forma ovale, quando il consigliere Bundy gli fece vedere alcune foto scattate da un aereo statunitense. Non c'era possibilità d'inganno: le rampe di lancio dei missili, ingrandite a dovere, risultavano in primo piano, ed erano quello che volevano essere: una minaccia diretta, comunque una provocazione agli Stati Uniti davanti alla quale non si poteva tergiversare e rifiutare di prendere posizione.
I rapporti dei servizi di spionaggio concordavano una volta tanto con la realtà: il mondo si trovava sulla soglia di una terza guerra mondiale. Bastava un passo falso da una parte o dall'altra, perché il grande incendio divampasse.
Kennedy non poté certo non pensare che il traguardo a cui la Russia era giunta a Cuba significava almeno due cose: la somma degli errori degli Stati Uniti nei confronti di Fidel Castro, e il prestigio guadagnato dal comunismo in genere e dalla Russia in specie nel Sud America, quasi in casa degli Stati Uniti stessi. E tuttavia - anche se aver ereditato gli errori politici più clamorosi di tre predecessori come Roosevelt, Truman ed Eishenower rappresentava per il giovane presidente cattolico un handicap massiccio - era necessario far qualsiasi cosa per evitare la guerra, e, nello stesso tempo, per non accettare come un fatto compiuto la presenza militare della Russia nella repubblica cubana.
Ora l'"affare" non riguardava più soltanto gli Stati Uniti e Cuba - nei confronti della quale anche il giovane Kennedy non era andato esente da clamorosi errori, dovuti, in parte, all'inefficienza di servizi di spionaggio come quello di Dulles o di "crociate" come quella di Mc Charty - ma i due grandi competitori a livello mondiale, i capi dei due blocchi. Per Krusciov si trattava, oltre che di estendere il prestigio russo in terra americana, anche di convincere, con quel gesto di forza, l'opposizione interna in Russia che se lui voleva non sapeva soltanto sbattere sul tavolo dell'Onu la sua scarpa di contadino ucraino, ma anche incuneare sulla soglia dello Stato avversario un armamento atomico pronto allo scatto. Chi lo accusava di eccessiva "distensione" avrebbe visto che sapeva anche premere l'acceleratore e sfidare l'avversario sul suo stesso terreno.
I missili fotografati dall'aereo statunitense erano a testata atomica: anche questo era chiaro. L'U-2 non aveva commesso errori: la documentazione era ineccepibile. Kennedy guardava quelle foto col cuore stretto, dimenticando di accostare le labbra al classico bicchier di latte della colazione che aveva davanti. Quella era l'ora più drammatica della sua vita di presidente, cioè di responsabile di metà del destino dell'umanità. In due anni aveva dovuto e saputo imparare molte cose, guarire in fretta di alcune ingenuità, soprattutto rinunziare a certe visioni astratte delle cose che l'intellettuale che era in lui era portato a porre in prospettiva più culturale che immediata. Qui, adesso, si trattava di pace o di guerra. La soluzione di compromesso non gli si profilava nemmeno all'orizzonte. Armare Cuba fino a quel punto, sciorinare nel Mar dei Caraibi un'intera flotta militare che garantisse la sicurezza delle installazioni atomiche chieste da Castro, significava che Krusciov non aveva intenzione di scherzare. Poteva darsi, tutt'al più, che con quella manovra intendesse saggiare sino al limite la pazienza e la tolleranza dell'avversario. Ma già una prova del genere portava per se stessa a soluzioni drastiche e definitive.
Kennedy riunisce immediatamente il comitato esecutivo. Per due giorni i pareri più discordi si alternano; finché il giovane presidente comprende che, in sostanza la responsabilità definitiva della decisione spetta soltanto a lui. Le prospettive concrete sono tutt'altro che rosee, specialmente dopo il fallimento della famosa invasione degli esuli alla "baia dei porci". Si tratta di attaccare strategicamente Cuba, o addirittura d'invadere di sorpresa l'isola, con reparti di marines in piena forza; o di creare delle controbasi nucleari attorno a Cuba, e porre l'isola sotto blocco navale.
Kennedy sente di doversi dichiarare pubblicamente. Vuole avere le carte in regola di fronte a tutto il mondo, in caso di decisione definitiva. Parla franco a tutta la nazione: «Vogliamo che amici e nemici credano al nostro impegno e al nostro coraggio». La sua dichiarazione non si limita alle parole: dichiara il blocco navale a Cuba; e dichiara che ogni missile lanciato da Cuba sarà considerato lanciato direttamente contro gli Stati Uniti. Si rende conto della gravità della decisione, e ne fa partecipi tutti gli americani; «Miei cari concittadini, senza dubbio questo è uno sforzo difficile e pericoloso. Ma sarebbe assai più pericoloso non far niente. Il nostro obbiettivo non è di dare una prova di forza, ma di vendicare la giustizia e di ottenere la pace, ma la pace nella libertà, non a spese della libertà. E con l'aiuto di Dio la raggiungeremo».
Solo davanti alle parole di Kennedy molti si rendono effettivamente conto che il mondo è sull'orlo della guerra. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu viene convocato d'urgenza; e Kennedy, quasi a scaricare la terribile tensione che ha dentro, passa lunghe ore a raccontare favole alla piccola Caroline. La marina statunitense si è già mossa e pattuglie armate di tutto punto solcano l'Atlantico. D'altro canto, le navi russe, anch'esse irte di missili, si stanno muovendo verso Cuba. Ci si comincia a domandare se e cosa potrebbe significare uno scontro fra queste due flotte. Dal canto loro i tecnici russi sfidano il tempo, per approntare le rampe atomiche nell'isola e far trovare gli Stati Uniti di fronte al fatto compiuto, e avere la sicurezza di poter rispondere prontamente ad un loro attacco, nel caso di un tentativo d'invasione del l'isola. Reparti sempre più numerosi di marines sono concentrati in Florida.
Papa Giovanni è stato subito avvertito del grande pericolo che sovrasta il mondo. Non si sono ancora spente le sue parole rivolte al Corpo Diplomatico per l'inaugurazione del Concilio, che già doveva alzare la voce per scongiurare un pericolo diretto.
Il 25 ottobre rivolge un nuovo appello al mondo intero per la pace e, senza scendere nel merito delle contese specifiche, riafferma i diritti dell'uomo alla pace e alla tranquillità.
«Mentre è appena iniziato il Concilio Ecumenico - egli disse - tra la gioia e la speranza di tutti gli uomini di buona volontà, ecco che nubi minacciose vengono nuovamente a oscurare l'orizzonte internazionale, seminando lo sgomento in milioni di famiglie... Quanti sentono responsabilità di potere, con la mano sulla coscienza ascoltino il grido d'angoscia che, in ogni parte della terra dai piccoli innocenti agli anziani, dai singoli individui alle comunità, sale verso il cielo: Pace, pace! Scongiuriamo tutti i governanti di non rimanere insensibili a questo grido dell'umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace: così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra di cui nessuno può prevedere le spaventose conseguenze... Perseverino dunque a trattare. Promuovere, favorire accettare trattative, a ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e prudenza, che propizia le benedizioni del cielo e merita quelle degli uomini».
Occorrerà che passi del tempo, per poter ricostruire esattamente, in base alle documentazioni militari russe e americane, il decorso prodigiosamente positivo del "braccio di ferro" dell'ottobre 1962 a Cuba. Non dobbiamo vedere ciò che non vi fu, e non è giusto, d'altronde, ignorare i fatti. Sta comunque dimostrato che quello stesso giorno, il 25 ottobre, tutte le navi americane in viaggio per Cuba si arrestano. Una sola di esse forza la linea ed entra nella zona proibita: è una petroliera. Gli osservatori politici, a Washington, vedono nel gesto della petroliera russa una provocazione esplicita che non ammette debolezze.
La corrente estremista consiglia Kennedy d'intervenire immediatamente e di rispondere con la forza, mettendo in moto il dispositivo di difesa. Ma il presidente ha calcolato anche l'ultimo spazio di esame della realtà. Sa che in casi in cui è in gioco il destino stesso degli uomini non è mai giusta l'intransigenza cieca e burocratica. Occorre aver fede in un elemento umano imponderabile, in una fiducia strana ma spesso operante comune agli avversari più irriducibili.
La sua risposta agli intransigenti è ferma: «Lasciate a Krusciov il tempo di decidere».
Ciò che Papa Giovanni spera, ciò che milioni di uomini di buona volontà sperano con lui, finalmente accade. Alle nove della domenica 28 ottobre, proprio nel giorno anniversario della elezione del Papa, sui nastri delle telescriventi della Casa Bianca appaiono le prime parole della risposta di Krusciov alla lettera di Kennedy. Alla quinta riga tutti comprendono che Krusciov non insiste nella prova di forza, non accetta la sfida americana, e ripiega sui propri passi. Annunciava la demolizione delle basi cubane e il ritiro dei missili.
È giusto rendere tanto a Kennedy che a Krusciov il merito di una decisione così saggia. Erano due "interlocutori" degni l'uno dell'altro, della medesima statura politica e umana, anche e proprio perché tanto diversi e contrari. Krusciov a Cuba ha accettato di perdere la faccia di fronte a tutto il mondo, e non è un fatto da poco. Kennedy ha dato prova di fermezza politica quanto occorreva per garantire al mondo democratico l'impegno degli Stati Uniti per la pace. Krusciov, a sua volta, ha avuto modo di convincere il mondo comunista che aveva osato fin dov'era stato possibile osare. Poi, al momento più delicato, era diventato il difensore della pace, colui che accetta di far macchina indietro pur di non gettare il mondo nel caos della guerra.
Quattro mesi più tardi nello studio di Papa Giovanni sono in udienza Alexei Adjubei e Rada Krusciov. Ed avviene il colloquio che abbiamo già raccontato.
Anche ad essi, Papa Giovanni ha reso la testimonianza che più gli era congeniale, e che meglio rispecchiava il mistero di quella Provvidenza che «scrive dritto sulle righe storte» della storia umana. Gli interlocutori del momento tragico sembravano due: Kennedy e Krusciov. Ma per chi è abituato a leggere nella cronaca e nella storia con gli occhi della fede, anche Papa Giovanni aveva diritto - lo ha tuttora - ad essere considerato protagonista di quel salvamento inatteso. La sua preghiera, il suo essere ostaggio fra Dio e gli uomini ha avuto un peso che solo nel mistero della fede trova la sua chiarezza e la sua logica, al di sopra di ogni diplomazia e d'ogni logica umana. «Lasciamo fare al Signore» - ripete, dopo aver fatto tutto ciò che era possibile.
Il seminario Missionario di Sotto il Monte

«IL GIOVANE PILOTA DELLO SPAZIO»

Anche in questa prospettiva soprannaturale Papa Giovanni sapeva annodare i fili di quell'integrazione del Concilio che sentiva come il compito specifico in cui si riassumeva il suo «far bene il Papa». La sua visione era già ecumenica di fatto, e scavalcava ogni limite di razza e di nominazione politica o religiosa, per raccogliere tutti gli uomini nell'unico ed universale anelito della paternità.
Si è detto che una mattina aveva salutato, durante il suo consueto colloquio dell'Angelus domenicale il primo astronauta nello stesso momento che salutava i fedeli riuniti in piazza san Pietro. Lo aveva fatto con estrema naturalezza, senza nessun velo od ammicco di distinzione politica e religiosa. Aveva detto: «L'Angelus Domini consacra per tutti i secoli il congiungimento del cielo con la terra, del divino con l'umano. In quest'ora amiamo associare alle intenzioni della nostra preghiera il giovane pilota dello spazio... I popoli, e in particolar modo le giovani generazioni, seguono con entusiasmo gli sviluppi delle mirabili ascensioni e navigazioni spaziali. Oh! come vorremmo che queste intraprese assumessero significato di omaggio reso a Dio creatore e legislatore supremo. Questi storici avvenimenti come saranno segnati negli annali della conoscenza scientifica del cosmo, così possono divenire espressioni di vero e pacifico progresso, a solido fondamento dell'umana fraternità».
Ernesto Balducci commenta così questo carisma continuo di contemplazione e di accettazione della realtà come s'è venuto rivelando in Papa Giovanni: «Appena si guardi al mondo moderno con l'occhio sereno con cui Papa Giovanni ci ha abituati a guardarlo, è facile vedere come in esso maturino realtà tutt'altro che inconciliabili con la verità cattolica, la quale anzi potrebbe trovare in esse l'occasione e il contenuto storico per una più ampia manifestazione di sé... Quali sono, insomma i "segni del tempo" in cui si delinea la nobile fisionomia del mondo d'oggi? In molte occasioni Papa Giovanni si è trattenuto nel decifrare questi segni, e specialmente nella Pacem in terris, tanto che sarebbe possibile costruirci, con le sue stesse parole, un disegno del mondo moderno quanto mai geniale e confortante. Vi troverebbero posto molti tratti della vita d'oggi, che furono costruiti, almeno agli inizi, con intenzioni anticristiane, come, ad esempio, le garanzie giuridiche dei diritti dell'uomo, proclamati dalla Costituzione francese, o come la distinzione, istituzionalmente sempre più profonda, tra la Chiesa e lo Stato. L'immagine che Papa Giovanni si fa del cattolico d'oggi non ricalca affatto quella, ad esempio, largamente dominante nell'epoca della sua fanciullezza, quando il cattolico sembrava più o meno coscientemente prigioniero di un mondo "cristiano" da opporre e da difendere contro un "mondo moderno"».
La realtà della pace, per Papa Giovanni, non è solo quella della "crisi di Cuba", anche se la soluzione di tale crisi è condizione di sviluppo per tutti gli altri aspetti della questione.
La pace è un bene completo, che si sviluppa simultaneamente in tutti i settori, e che esige di non essere trascurato sul versante della cultura per essere curato sul versante della politica, e viceversa: occorre l'armonia fra tutti i piani, e l'interdipendenza vitale da cui nasce l'ordine in ogni rapporto sociale.
Il Time, nella motivazione per Papa Giovanni come "uomo dell'anno", scriveva, il 30 dicembre 1962: «Angelo Giuseppe Roncalli ha fatto la storia come pochi altri uomini hanno potuto fare nel 1962. È stato l'inizio della rivoluzione nella cristianità, animata da una fede di cui 900 milioni di uomini fanno la religione più importante del mondo. Questo inizio è dovuto all'uomo dell'anno, a Papa Giovanni XXIII, il quale, convocando il Concilio Vaticano II, ha dato impulso a idee e a forze che influiranno non solo sui cattolici, ma anche sulla crescente popolazione del mondo, molto tempo dopo che Cuba avrà riottenuto la propria libertà e molto tempo dopo che l'India sarà stata al sicuro da ogni aggressione. In seguito alla convocazione del Concilio Ecumenico, Papa Giovanni XXIII è diventato il Papa più popolare dei tempi moderni, e forse di tutti i tempi. Egli ha manifestato un tale calore, ha dimostrato una tale semplicità e ha dato prova di tale charme che ha conquistato il cuore dei cattolici, dei protestanti e anche dei non cristiani».
Ancora una volta, dunque, non tanto un fenomeno ecumenico. quanto un uomo ecumenico.

KRUSCIOV SCRIVE ANCORA

Il 1963 si Aprì per Papa Giovanni con i segni di un raccolto sensibile della sua seminagione pacifica ed ecumenica: Krusciov gli scrisse per la terza volta. La prima volta era sembrato a molti che il gesto del capo sovietico potesse apparire come l'assaggio ad un uomo ad un mondo, ad una situazione in cui il Papa e i cattolici potevano, senza saperlo e volerlo, fare da test alle reazioni di tutto il mondo occidentale e democratico.
Ma questa volta le cose stavano diversamente. Krusciov non aveva più bisogno di assaggiare o misurare le reazioni dell'uomo a cui si rivolgeva. Andava sicuro al cuore di un interlocutore che sapeva quale senso esatto dare alle sue parole di augurio.
Ci volle del tempo prima che si potesse conoscere il testo degli auguri di Krusciov e quello che, in latino e russo, con firma e stesura autografe del testo, gli era stato ricambiato immediatamente. Quello stesso giorno, però, Papa Giovanni si era recato a visitare una chiesa nel rione Trevi e a venerare le reliquie di san Gaspare del Bufalo. Lì, alla gente che gli si stringeva attorno, disse poche parole, sereno, per raccomandare di «insegnare la verità a tutti con garbo e con buone maniere». C'era come la soddisfazione di aver constatato che con la speranza e la carità, con la delicatezza e il rispetto per tutti era possibile giungere al cuore degli uomini anche più lontani senza per questo diminuire l'integrità della verità e la compattezza della fedeltà cattolica.
Quel giorno disse che aveva cominciato la stesura di una lettera indirizzata a tutti i vescovi del mondo per incoraggiarli a condurre a buon fine l'opera del Concilio, e per riaffermare le condizioni cristiane della pace.
Intanto non dimenticava che poteva morire da un giorno all'altro.
Nel discorso che aveva rivolto il 25 novembre 1962 ai seminaristi di Propaganda Fide ad un certo punto si era lasciato prendere da questo presentimento, e non lo aveva nascosto. Aveva detto: «Tutti i giorni sono buoni per nascere, e tutti per morire». Era l'ottantunesimo anniversario della sua nascita.
Il 2 febbraio 1963, nella festa della Purificazione di Maria, aveva deciso di assegnare i ceri benedetti a personalità cattoliche di oltrecortina. Era anche questo un modo di tenere aperto il dialogo, tutto il dialogo possibile in quel momento e in quella situazione. Si trattava di piccoli gesti, ma si vedeva presto che oltre che un senso preciso, essi avevano, le più volte, anche un'immediata conseguenza. Addolcivano, per quanto possibile, i contrasti, tenevano aperto uno spiraglio di speranza.
Il 10 febbraio riceveva in udienza uno dei più illustri testimoni di quella che a torto è stata chiamata "la Chiesa del silenzio", mons. Slipyi, liberato dai russi dopo lunghi anni di prigionia. Sembrava che in qualche modo il "disgelo" e la "distensione" obbedissero ai segni della sua ampiezza di cuore, che così spesso apparve a qualcuno come incauta apertura di orizzonti sigillati, se non addirittura "santa follia".
Non si è detto forse che il pontificato di Papa Giovanni ha attenuato il rigore della distinzione e della divisione che debbono restare fra errore e verità, fra Dio e non Dio? In realtà, basterebbe rileggere le parole e rimeditare gli atteggiamenti di Papa Giovanni nei confronti dei fenomeni di persecuzione della Chiesa da parte dei regimi totalitari per convincersi della forza che il suo rifiuto dell'errore ha mantenuto intatta. Non dipende da Papa Giovanni, la possibile confusione: dipende soltanto da chi non ha più saputo guardare all'errore senza coinvolgervi anche l'errante, da chi ha creduto, per secoli, che l'ideale della "crociata" cristiana fosse quello di uccidere gli erranti per estirpare dal mondo gli errori.
Papa Giovanni - come disse con solenne e programmatica chiarezza nel discorso d'apertura del Concilio - non rifiutò affatto di considerare errori gli errori. Volle solo prendere atto dell'evoluzione dei tempi, del pensiero e della coscienza umana, e spostare l'accento sullo sviluppo positivo della verità, più che sulla necessità d'insistere sulle scomuniche e sulle condanne ad ogni costo.
Quando, nel 1960, era morto a Krasic, nella sua modesta abitazione familiare, mons. Stepinac, Papa Giovanni, durante il solenne rito di suffragio per il cardinale jugoslavo che non aveva potuto ricevere la porpora, aveva detto, fra l'altro: «Era troppo cara al nostro spirito questa figura semplice e insigne di padre e di pastore della Chiesa di Dio. La sua prolungata tribolazione di quindici anni, e la dignità serena e confidente del suo lungo soffrire l'hanno imposto all'ammirazione e alla venerazione universale».
In occasione del cinquantesimo anniversario sacerdotale di mons. Beran, il primate boemo anch'esso a domicilio coatto (sarebbe stato liberato qualche anno dopo) Papa Giovanni gli scrisse una affettuosa lettera. Vi si diceva, fra l'altro: «Vorremmo tanto venire da te. In Cecoslovacchia come in altre regioni continua un doloroso stato di cose contro la Chiesa. E in questo quadro tristissimo, in questo piano nefasto, teso a sradicare la fede dal cuore dei credenti, il nostro dolore si aggrava sempre di più perché nel compiersi del tuo cinquantesimo anniversario di sacerdozio non ci è permesso di rivolgerti la nostra voce e neppure di farti avere per via diretta queste nostre parole di conforto».
Il card. Beran sarebbe stato liberato dopo quattordici anni di segregazione, il 14 settembre 1963: sarebbe toccato a Paolo VI, dare la porpora e il saluto decretati da Papa Giovanni al primate testimone della fede.
Un altro testimone a cui Papa Giovanni dimostrò sempre una particolare attenzione è stato il card. Wyszynski, primate di Polonia. Si è già visto con che esplicita volontà il Pontefice mettesse l'accento di questo rispetto, davanti a tutti i fedeli, per il cardinale in apposizione tanto dei nazisti che dei comunisti. L'ultimo incontro di Papa Giovanni con il card. Wyszynski avvenne, come si è visto, il 20 maggio 1963, pochissimi giorni prima della morte del Papa. Il 26 maggio la radio vaticana trasmetteva un affettuoso messaggio del Papa ai cattolici polacchi, riuniti in pellegrinaggio al santuario di Piekary. Vi si diceva, fra l'altro: «Ammirando con gli occhi dell'anima la grande moltitudine costituita da uomini forti e probi, ricchi di fede, che conservano intatta la vita spirituale come una preziosa eredità, sentiamo l'animo nostro commuoversi e quasi abbracciarvi con un amore senza confini... Non ci risparmieremo la fatica, fino a quando avremo la vita, perché si abbiano sempre per voi sollecitudini e cure. Abbiate fiducia nell'amore della Chiesa e ad essa affidatevi tranquilli, nella certezza che i suoi pensieri sono pensieri di pace e non di afflizione».
Quando mons. Slipyi giunse dall'Ucraina aveva trascorso diciotto anni tra carcere e segregazione. La mattina, la gioia del Papa era stata così incontenibile che ne aveva voluto mettere al corrente lui stesso i fedeli riuniti in piazza per il consueto incontro dell'Angelus. Aveva detto: «Dall'Oriente europeo ci è giunta ieri sera una toccante consolazione di cui ringraziamo umilmente il Signore come di qualcosa che nei segreti divini può preparare alla Santa Sede e alle anime rette nuovo slancio di fede sincera e di apostolato pacifico e benedetto. Non turbiamo il disegno misterioso con cui Dio chiama tutti a cooperare, radunando i fili di una tessitura che si compie con la grazia sua e col servizio pronto delle anime innocenti, miti e generose. Voi leggete nel cuore nostro la commozione e la tenerezza del momento».
Poi, la sera condusse l'esule giunto da poco nella sua cappella privata. Ringraziarono insieme il Signore, poi il Papa fece sedere mons. Slipyi, e gli scrisse su una sua fotografia: «Felice il momento in cui Gesù chiama dalle lacrime alla gioia dello spirito».
E Mindszenty?
Qualcuno ha voluto sostenere che Papa Giovanni si sia disinteressato della sorte del primate ungherese, rifugiato nell'ambasciata americana di Budapest fin dall'insurrezione magiara del 1956, mentre invece inviò il card. Konig in visita.
In realtà tutti sanno ormai che anche di lui Papa Giovanni s'interessò a lungo, e ripetutamente, per sanare sia la sua posizione personale sia quella dell'episcopato e del popolo polacco. Le cose sono rimaste sostanzialmente allo stato di prima, almeno per quanto riguarda il primate prigioniero ma mancano elementi obbiettivi di giudizio per concludere con qualsiasi parere su questa complessa questione.

UN PREMIO PER LA PACE

Il 1° marzo 1963 i rappresentanti di 21 paesi di tutto il mondo, non esclusa la Russia, si dichiararono favorevoli ad attribuire a Papa Giovanni il premio internazionale per la pace della fondazione Balzan. Papa Giovanni non rifiutò quel premio, che ebbe come primo tramite il card. Montini; lo accettò come conferito ai suoi predecessori e a se stesso.
In realtà Papa Giovanni volle approfittare anche di quella occasione, dopo il batticuore della crisi di Cuba, per riporre ancora una volta l'accento sulla necessità per tutti, di collaborare ad ogni costo alla pace.
Papa Giovanni volle devolvere subito i milioni del premio stesso ad una iniziativa di pace. Egli cercava in realtà di comunicare con tutti coloro che intendevano edificare la pace, diffondere la pace, tenere aperto il discorso concreto della pace.
Volle addirittura che la cerimonia della consegna del premio, nella seconda parte, si svolgesse addirittura nella basilica di san Pietro. E lì, davanti alla folla e ai rappresentanti di tante nazioni, riprese il discorso della pace.
«La pace - disse - vista nella luce di Dio e riflettentesi nel cuore degli uomini: quale spettacolo, diletti figli, e quale delizia per lo spirito e per l'anima! Ma è un edificio questo che si costruisce giorno per giorno e sopra solide basi. Qui sotto la volta della basilica vaticana, vediamo innalzarsi nel cielo di Roma la incomparabile cupola di Michelangelo. Ma badiamo a non dimenticare che essa poggia su quattro enormi pilastri che penetrano profondamente nel suolo sino a raggiungere la roccia: quella roccia di cui si parla nella conclusione del discorso della montagna: "i venti soffiano ed infuriano contro quella casa, ma essa non è crollata, perché era piantata sulla roccia"».
Ebbene, la pace è una casa, la casa di tutti. Essa è l'arco che congiunge la terra al cielo. Ma per innalzarsi tanto in alto, abbisogna di poggiare su quattro solidi pilastri.
Sentiva ormai d'essere lui stesso un pilastro della pace, uno dei documenti più evidenti della beatitudine di Cristo: «Beati i pacifici, perché saranno considerati figli di Dio». Al Quarticciolo, durante una visita compiutavi il 2 marzo, aveva ammesso di sentirsi al centro dell'attenzione di tutto il mondo. Aveva detto, alle centomila persone che non finivano di acclamarlo: «Siamo al centro delle attese. I benefici della pace, che toccano il mondo intero, ci sono familiari».
Quanto avrebbe ancora potuto durare?
La sua salute era già minata. Il Natale 1962 aveva dovuto subire notevoli mutamenti di programma. Poi, piano piano, una schiarita aveva restituito fiducia a lui ed ai suoi collaboratori. Da parte sua continuava a far coraggio più agli altri che a se stesso. Lui non aveva più bisogno di coraggio. Era nella volontà di Dio, e in essa aveva già trovato definitivamente la pace. La sua agonia non sarebbe stata che il coronamento esemplare e per noi edificante, di quella tranquilla accettazione.
L'umanità aveva trepidato, dopo Natale, per la sua salute. Da tutto il mondo gli erano giunti messaggi di augurio. Egli non si stupiva più. Non pensava che d'essere uno strumento, ed anche quei segni di solidarietà e di amore non lo toccavano nella soddisfazione personale; provocavano piuttosto la sua gioia di sacerdote, di pontefice, di padre. E quando ringraziava la folla, o rendeva conto ad essa dello stato della sua salute, lo sapeva fare con tutta l'intimità con la quale un padre, o magari un nonno, si confida con i figli e i nipoti.
Durante la visita natalizia ai bambini di un ospedale sul Gianicolo, disse: «Come vedete sono in perfetta salute: non che sia pronto a fare una corsa, ma insomma... I medici mi raccomandano di non affaticarmi, ma io mi sento pieno di energie. Abbiamo celebrato tre messe stanotte, e dato che mi avete messo in condizioni di pronunciare qualche parola, speriamo che questa basterà perché si creda ai medici quando dicono che il Papa ha avuto qualche piccolo disturbetto qua e là, ma si vede bene che non gli manca niente dalla parte dei sensi: degli occhi, della lingua e specialmente dalla parte del cuore che è il bene più prezioso».
Fu in quell'occasione che si disse che «Papa Giovanni rifiuta di essere imbalsamato vivo». Era vero. Il card. Leger si era lasciato andare ad una previsione pessimistica sulla salute del Papa, previsione che purtroppo corrispondeva al vero. Ma Papa Giovanni, pur sapendo di essere agli ultimi giorni della vita, non voleva, per nessun motivo, guastare la gioia e la speranza dei figli. Avrebbe voluto che tutto continuasse ad andare come aveva cominciato ad andare da qualche anno. Egli non chiedeva né di vivere né di morire; chiedeva soltanto di continuare a servire, fino all'ultimo, la Chiesa e gli uomini.
Sarebbe stato esaudito. Poche altre morti, da qualche secolo, anche dentro la Chiesa, sarebbero state così semplici, così universali, così cristiane. La sua "umile gloria" era già stata evidente nella sua vita; ma la conferma sarebbe venuta soprattutto dalla sua morte "ecumenica".
Il testamento personale era già stato vergato da tempo, fin dai giorni della sua consacrazione episcopale, e poi via via perfezionato e rettificato
Ciò che gli premeva consegnare agli uomini, prima di morire, era il suo testamento ecclesiale, l'atto più alto, geniale e decisivo del suo magistero. Era la Pacem in terris, che sarebbe stata donata al mondo il Giovedì Santo del 1963, meno di due mesi prima della morte.
Papa Giovanni XXIII nell'ultimo anno del suo Pontificato

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