INTRODUZIONE
Il presidente Kennedy
ebbe le prove dell'armamento russo di Cuba giovedì 16 ottobre 1962. Era a
colazione, nella sala della Casa Bianca a forma ovale, quando il consigliere
Bundy gli fece vedere alcune foto scattate da un aereo statunitense. Non c'era
possibilità d'inganno: le rampe di lancio dei missili, ingrandite a
dovere, risultavano in primo piano, ed erano quello che volevano essere: una
minaccia diretta, comunque una provocazione agli Stati Uniti davanti alla quale
non si poteva tergiversare e rifiutare di prendere posizione.
I rapporti
dei servizi di spionaggio concordavano una volta tanto con la realtà: il
mondo si trovava sulla soglia di una terza guerra mondiale. Bastava un passo
falso da una parte o dall'altra, perché il grande incendio
divampasse.
Kennedy non poté certo non pensare che il traguardo a
cui la Russia era giunta a Cuba significava almeno due cose: la somma degli
errori degli Stati Uniti nei confronti di Fidel Castro, e il prestigio
guadagnato dal comunismo in genere e dalla Russia in specie nel Sud America,
quasi in casa degli Stati Uniti stessi. E tuttavia - anche se aver ereditato gli
errori politici più clamorosi di tre predecessori come Roosevelt, Truman
ed Eishenower rappresentava per il giovane presidente cattolico un handicap
massiccio - era necessario far qualsiasi cosa per evitare la guerra, e, nello
stesso tempo, per non accettare come un fatto compiuto la presenza militare
della Russia nella repubblica cubana.
Ora l'"affare" non riguardava
più soltanto gli Stati Uniti e Cuba - nei confronti della quale anche il
giovane Kennedy non era andato esente da clamorosi errori, dovuti, in parte,
all'inefficienza di servizi di spionaggio come quello di Dulles o di "crociate"
come quella di Mc Charty - ma i due grandi competitori a livello mondiale, i
capi dei due blocchi. Per Krusciov si trattava, oltre che di estendere il
prestigio russo in terra americana, anche di convincere, con quel gesto di
forza, l'opposizione interna in Russia che se lui voleva non sapeva soltanto
sbattere sul tavolo dell'Onu la sua scarpa di contadino ucraino, ma anche
incuneare sulla soglia dello Stato avversario un armamento atomico pronto allo
scatto. Chi lo accusava di eccessiva "distensione" avrebbe visto che sapeva
anche premere l'acceleratore e sfidare l'avversario sul suo stesso
terreno.
I missili fotografati dall'aereo statunitense erano a testata
atomica: anche questo era chiaro. L'U-2 non aveva commesso errori: la
documentazione era ineccepibile. Kennedy guardava quelle foto col cuore stretto,
dimenticando di accostare le labbra al classico bicchier di latte della
colazione che aveva davanti. Quella era l'ora più drammatica della sua
vita di presidente, cioè di responsabile di metà del destino
dell'umanità. In due anni aveva dovuto e saputo imparare molte cose,
guarire in fretta di alcune ingenuità, soprattutto rinunziare a certe
visioni astratte delle cose che l'intellettuale che era in lui era portato a
porre in prospettiva più culturale che immediata. Qui, adesso, si
trattava di pace o di guerra. La soluzione di compromesso non gli si profilava
nemmeno all'orizzonte. Armare Cuba fino a quel punto, sciorinare nel Mar dei
Caraibi un'intera flotta militare che garantisse la sicurezza delle
installazioni atomiche chieste da Castro, significava che Krusciov non aveva
intenzione di scherzare. Poteva darsi, tutt'al più, che con quella
manovra intendesse saggiare sino al limite la pazienza e la tolleranza
dell'avversario. Ma già una prova del genere portava per se stessa a
soluzioni drastiche e definitive.
Kennedy riunisce immediatamente il
comitato esecutivo. Per due giorni i pareri più discordi si alternano;
finché il giovane presidente comprende che, in sostanza la
responsabilità definitiva della decisione spetta soltanto a lui. Le
prospettive concrete sono tutt'altro che rosee, specialmente dopo il fallimento
della famosa invasione degli esuli alla "baia dei porci". Si tratta di attaccare
strategicamente Cuba, o addirittura d'invadere di sorpresa l'isola, con reparti
di marines in piena forza; o di creare delle controbasi nucleari attorno a Cuba,
e porre l'isola sotto blocco navale.
Kennedy sente di doversi dichiarare
pubblicamente. Vuole avere le carte in regola di fronte a tutto il mondo, in
caso di decisione definitiva. Parla franco a tutta la nazione: «Vogliamo
che amici e nemici credano al nostro impegno e al nostro coraggio». La sua
dichiarazione non si limita alle parole: dichiara il blocco navale a Cuba; e
dichiara che ogni missile lanciato da Cuba sarà considerato lanciato
direttamente contro gli Stati Uniti. Si rende conto della gravità della
decisione, e ne fa partecipi tutti gli americani; «Miei cari concittadini,
senza dubbio questo è uno sforzo difficile e pericoloso. Ma sarebbe assai
più pericoloso non far niente. Il nostro obbiettivo non è di dare
una prova di forza, ma di vendicare la giustizia e di ottenere la pace, ma la
pace nella libertà, non a spese della libertà. E con l'aiuto di
Dio la raggiungeremo».
Solo davanti alle parole di Kennedy molti si
rendono effettivamente conto che il mondo è sull'orlo della guerra. Il
Consiglio di Sicurezza dell'Onu viene convocato d'urgenza; e Kennedy, quasi a
scaricare la terribile tensione che ha dentro, passa lunghe ore a raccontare
favole alla piccola Caroline. La marina statunitense si è già
mossa e pattuglie armate di tutto punto solcano l'Atlantico. D'altro canto, le
navi russe, anch'esse irte di missili, si stanno muovendo verso Cuba. Ci si
comincia a domandare se e cosa potrebbe significare uno scontro fra queste due
flotte. Dal canto loro i tecnici russi sfidano il tempo, per approntare le rampe
atomiche nell'isola e far trovare gli Stati Uniti di fronte al fatto compiuto, e
avere la sicurezza di poter rispondere prontamente ad un loro attacco, nel caso
di un tentativo d'invasione del l'isola. Reparti sempre più numerosi di
marines sono concentrati in Florida.
Papa Giovanni è stato subito
avvertito del grande pericolo che sovrasta il mondo. Non si sono ancora spente
le sue parole rivolte al Corpo Diplomatico per l'inaugurazione del Concilio, che
già doveva alzare la voce per scongiurare un pericolo diretto.
Il 25
ottobre rivolge un nuovo appello al mondo intero per la pace e, senza scendere
nel merito delle contese specifiche, riafferma i diritti dell'uomo alla pace e
alla tranquillità.
«Mentre è appena iniziato il Concilio
Ecumenico - egli disse - tra la gioia e la speranza di tutti gli uomini di buona
volontà, ecco che nubi minacciose vengono nuovamente a oscurare
l'orizzonte internazionale, seminando lo sgomento in milioni di famiglie...
Quanti sentono responsabilità di potere, con la mano sulla coscienza
ascoltino il grido d'angoscia che, in ogni parte della terra dai piccoli
innocenti agli anziani, dai singoli individui alle comunità, sale verso
il cielo: Pace, pace! Scongiuriamo tutti i governanti di non rimanere
insensibili a questo grido dell'umanità. Facciano tutto ciò che
è in loro potere per salvare la pace: così eviteranno al mondo gli
orrori di una guerra di cui nessuno può prevedere le spaventose
conseguenze... Perseverino dunque a trattare. Promuovere, favorire accettare
trattative, a ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e
prudenza, che propizia le benedizioni del cielo e merita quelle degli
uomini».
Occorrerà che passi del tempo, per poter ricostruire
esattamente, in base alle documentazioni militari russe e americane, il decorso
prodigiosamente positivo del "braccio di ferro" dell'ottobre 1962 a Cuba. Non
dobbiamo vedere ciò che non vi fu, e non è giusto, d'altronde,
ignorare i fatti. Sta comunque dimostrato che quello stesso giorno, il 25
ottobre, tutte le navi americane in viaggio per Cuba si arrestano. Una sola di
esse forza la linea ed entra nella zona proibita: è una petroliera. Gli
osservatori politici, a Washington, vedono nel gesto della petroliera russa una
provocazione esplicita che non ammette debolezze.
La corrente estremista
consiglia Kennedy d'intervenire immediatamente e di rispondere con la forza,
mettendo in moto il dispositivo di difesa. Ma il presidente ha calcolato anche
l'ultimo spazio di esame della realtà. Sa che in casi in cui è in
gioco il destino stesso degli uomini non è mai giusta l'intransigenza
cieca e burocratica. Occorre aver fede in un elemento umano imponderabile, in
una fiducia strana ma spesso operante comune agli avversari più
irriducibili.
La sua risposta agli intransigenti è ferma:
«Lasciate a Krusciov il tempo di decidere».
Ciò che Papa
Giovanni spera, ciò che milioni di uomini di buona volontà sperano
con lui, finalmente accade. Alle nove della domenica 28 ottobre, proprio nel
giorno anniversario della elezione del Papa, sui nastri delle telescriventi
della Casa Bianca appaiono le prime parole della risposta di Krusciov alla
lettera di Kennedy. Alla quinta riga tutti comprendono che Krusciov non insiste
nella prova di forza, non accetta la sfida americana, e ripiega sui propri
passi. Annunciava la demolizione delle basi cubane e il ritiro dei
missili.
È giusto rendere tanto a Kennedy che a Krusciov il merito di una
decisione così saggia. Erano due "interlocutori" degni l'uno dell'altro,
della medesima statura politica e umana, anche e proprio perché tanto
diversi e contrari. Krusciov a Cuba ha accettato di perdere la faccia di fronte
a tutto il mondo, e non è un fatto da poco. Kennedy ha dato prova di
fermezza politica quanto occorreva per garantire al mondo democratico l'impegno
degli Stati Uniti per la pace. Krusciov, a sua volta, ha avuto modo di
convincere il mondo comunista che aveva osato fin dov'era stato possibile osare.
Poi, al momento più delicato, era diventato il difensore della pace,
colui che accetta di far macchina indietro pur di non gettare il mondo nel caos
della guerra.
Quattro mesi più tardi nello studio di Papa Giovanni
sono in udienza Alexei Adjubei e Rada Krusciov. Ed avviene il colloquio che
abbiamo già raccontato.
Anche ad essi, Papa Giovanni ha reso la
testimonianza che più gli era congeniale, e che meglio rispecchiava il
mistero di quella Provvidenza che «scrive dritto sulle righe storte»
della storia umana. Gli interlocutori del momento tragico sembravano due:
Kennedy e Krusciov. Ma per chi è abituato a leggere nella cronaca e nella
storia con gli occhi della fede, anche Papa Giovanni aveva diritto - lo ha
tuttora - ad essere considerato protagonista di quel salvamento inatteso. La sua
preghiera, il suo essere ostaggio fra Dio e gli uomini ha avuto un peso che solo
nel mistero della fede trova la sua chiarezza e la sua logica, al di sopra di
ogni diplomazia e d'ogni logica umana. «Lasciamo fare al Signore» -
ripete, dopo aver fatto tutto ciò che era possibile.
Il seminario Missionario di Sotto il Monte
«IL GIOVANE PILOTA DELLO SPAZIO»
Anche in questa prospettiva soprannaturale Papa
Giovanni sapeva annodare i fili di quell'integrazione del Concilio che sentiva
come il compito specifico in cui si riassumeva il suo «far bene il
Papa». La sua visione era già ecumenica di fatto, e scavalcava ogni
limite di razza e di nominazione politica o religiosa, per raccogliere tutti gli
uomini nell'unico ed universale anelito della paternità.
Si è
detto che una mattina aveva salutato, durante il suo consueto colloquio
dell'Angelus domenicale il primo astronauta nello stesso momento che salutava i
fedeli riuniti in piazza san Pietro. Lo aveva fatto con estrema naturalezza,
senza nessun velo od ammicco di distinzione politica e religiosa. Aveva detto:
«L'Angelus Domini consacra per tutti i secoli il congiungimento del cielo
con la terra, del divino con l'umano. In quest'ora amiamo associare alle
intenzioni della nostra preghiera il giovane pilota dello spazio... I popoli, e
in particolar modo le giovani generazioni, seguono con entusiasmo gli sviluppi
delle mirabili ascensioni e navigazioni spaziali. Oh! come vorremmo che queste
intraprese assumessero significato di omaggio reso a Dio creatore e legislatore
supremo. Questi storici avvenimenti come saranno segnati negli annali della
conoscenza scientifica del cosmo, così possono divenire espressioni di
vero e pacifico progresso, a solido fondamento dell'umana
fraternità».
Ernesto Balducci commenta così questo
carisma continuo di contemplazione e di accettazione della realtà come
s'è venuto rivelando in Papa Giovanni: «Appena si guardi al mondo
moderno con l'occhio sereno con cui Papa Giovanni ci ha abituati a guardarlo,
è facile vedere come in esso maturino realtà tutt'altro che
inconciliabili con la verità cattolica, la quale anzi potrebbe trovare in
esse l'occasione e il contenuto storico per una più ampia manifestazione
di sé... Quali sono, insomma i "segni del tempo" in cui si delinea la
nobile fisionomia del mondo d'oggi? In molte occasioni Papa Giovanni si è
trattenuto nel decifrare questi segni, e specialmente nella Pacem in terris,
tanto che sarebbe possibile costruirci, con le sue stesse parole, un disegno del
mondo moderno quanto mai geniale e confortante. Vi troverebbero posto molti
tratti della vita d'oggi, che furono costruiti, almeno agli inizi, con
intenzioni anticristiane, come, ad esempio, le garanzie giuridiche dei diritti
dell'uomo, proclamati dalla Costituzione francese, o come la distinzione,
istituzionalmente sempre più profonda, tra la Chiesa e lo Stato.
L'immagine che Papa Giovanni si fa del cattolico d'oggi non ricalca affatto
quella, ad esempio, largamente dominante nell'epoca della sua fanciullezza,
quando il cattolico sembrava più o meno coscientemente prigioniero di un
mondo "cristiano" da opporre e da difendere contro un "mondo
moderno"».
La realtà della pace, per Papa Giovanni, non
è solo quella della "crisi di Cuba", anche se la soluzione di tale crisi
è condizione di sviluppo per tutti gli altri aspetti della
questione.
La pace è un bene completo, che si sviluppa
simultaneamente in tutti i settori, e che esige di non essere trascurato sul
versante della cultura per essere curato sul versante della politica, e
viceversa: occorre l'armonia fra tutti i piani, e l'interdipendenza vitale da
cui nasce l'ordine in ogni rapporto sociale.
Il Time, nella motivazione per
Papa Giovanni come "uomo dell'anno", scriveva, il 30 dicembre 1962: «Angelo
Giuseppe Roncalli ha fatto la storia come pochi altri uomini hanno potuto fare
nel 1962. È stato l'inizio della rivoluzione nella cristianità, animata
da una fede di cui 900 milioni di uomini fanno la religione più
importante del mondo. Questo inizio è dovuto all'uomo dell'anno, a Papa
Giovanni XXIII, il quale, convocando il Concilio Vaticano II, ha dato impulso a
idee e a forze che influiranno non solo sui cattolici, ma anche sulla crescente
popolazione del mondo, molto tempo dopo che Cuba avrà riottenuto la
propria libertà e molto tempo dopo che l'India sarà stata al
sicuro da ogni aggressione. In seguito alla convocazione del Concilio Ecumenico,
Papa Giovanni XXIII è diventato il Papa più popolare dei tempi
moderni, e forse di tutti i tempi. Egli ha manifestato un tale calore, ha
dimostrato una tale semplicità e ha dato prova di tale charme che ha
conquistato il cuore dei cattolici, dei protestanti e anche dei non
cristiani».
Ancora una volta, dunque, non tanto un fenomeno ecumenico.
quanto un uomo ecumenico.
KRUSCIOV SCRIVE ANCORA
Il 1963 si Aprì per Papa Giovanni con i
segni di un raccolto sensibile della sua seminagione pacifica ed ecumenica:
Krusciov gli scrisse per la terza volta. La prima volta era sembrato a molti che
il gesto del capo sovietico potesse apparire come l'assaggio ad un uomo ad un
mondo, ad una situazione in cui il Papa e i cattolici potevano, senza saperlo e
volerlo, fare da test alle reazioni di tutto il mondo occidentale e
democratico.
Ma questa volta le cose stavano diversamente. Krusciov non
aveva più bisogno di assaggiare o misurare le reazioni dell'uomo a cui si
rivolgeva. Andava sicuro al cuore di un interlocutore che sapeva quale senso
esatto dare alle sue parole di augurio.
Ci volle del tempo prima che si
potesse conoscere il testo degli auguri di Krusciov e quello che, in latino e
russo, con firma e stesura autografe del testo, gli era stato ricambiato
immediatamente. Quello stesso giorno, però, Papa Giovanni si era recato a
visitare una chiesa nel rione Trevi e a venerare le reliquie di san Gaspare del
Bufalo. Lì, alla gente che gli si stringeva attorno, disse poche parole,
sereno, per raccomandare di «insegnare la verità a tutti con garbo e
con buone maniere». C'era come la soddisfazione di aver constatato che con
la speranza e la carità, con la delicatezza e il rispetto per tutti era
possibile giungere al cuore degli uomini anche più lontani senza per
questo diminuire l'integrità della verità e la compattezza della
fedeltà cattolica.
Quel giorno disse che aveva cominciato la stesura
di una lettera indirizzata a tutti i vescovi del mondo per incoraggiarli a
condurre a buon fine l'opera del Concilio, e per riaffermare le condizioni
cristiane della pace.
Intanto non dimenticava che poteva morire da un
giorno all'altro.
Nel discorso che aveva rivolto il 25 novembre 1962 ai
seminaristi di Propaganda Fide ad un certo punto si era lasciato prendere da
questo presentimento, e non lo aveva nascosto. Aveva detto: «Tutti i giorni
sono buoni per nascere, e tutti per morire». Era l'ottantunesimo
anniversario della sua nascita.
Il 2 febbraio 1963, nella festa della
Purificazione di Maria, aveva deciso di assegnare i ceri benedetti a
personalità cattoliche di oltrecortina. Era anche questo un modo di
tenere aperto il dialogo, tutto il dialogo possibile in quel momento e in quella
situazione. Si trattava di piccoli gesti, ma si vedeva presto che oltre che un
senso preciso, essi avevano, le più volte, anche un'immediata
conseguenza. Addolcivano, per quanto possibile, i contrasti, tenevano aperto uno
spiraglio di speranza.
Il 10 febbraio riceveva in udienza uno dei
più illustri testimoni di quella che a torto è stata chiamata "la
Chiesa del silenzio", mons. Slipyi, liberato dai russi dopo lunghi anni di
prigionia. Sembrava che in qualche modo il "disgelo" e la "distensione"
obbedissero ai segni della sua ampiezza di cuore, che così spesso apparve
a qualcuno come incauta apertura di orizzonti sigillati, se non addirittura
"santa follia".
Non si è detto forse che il pontificato di Papa
Giovanni ha attenuato il rigore della distinzione e della divisione che debbono
restare fra errore e verità, fra Dio e non Dio? In realtà,
basterebbe rileggere le parole e rimeditare gli atteggiamenti di Papa Giovanni
nei confronti dei fenomeni di persecuzione della Chiesa da parte dei regimi
totalitari per convincersi della forza che il suo rifiuto dell'errore ha
mantenuto intatta. Non dipende da Papa Giovanni, la possibile confusione:
dipende soltanto da chi non ha più saputo guardare all'errore senza
coinvolgervi anche l'errante, da chi ha creduto, per secoli, che l'ideale della
"crociata" cristiana fosse quello di uccidere gli erranti per estirpare dal
mondo gli errori.
Papa Giovanni - come disse con solenne e programmatica
chiarezza nel discorso d'apertura del Concilio - non rifiutò affatto di
considerare errori gli errori. Volle solo prendere atto dell'evoluzione dei
tempi, del pensiero e della coscienza umana, e spostare l'accento sullo sviluppo
positivo della verità, più che sulla necessità d'insistere
sulle scomuniche e sulle condanne ad ogni costo.
Quando, nel 1960, era
morto a Krasic, nella sua modesta abitazione familiare, mons. Stepinac, Papa
Giovanni, durante il solenne rito di suffragio per il cardinale jugoslavo che
non aveva potuto ricevere la porpora, aveva detto, fra l'altro: «Era troppo
cara al nostro spirito questa figura semplice e insigne di padre e di pastore
della Chiesa di Dio. La sua prolungata tribolazione di quindici anni, e la
dignità serena e confidente del suo lungo soffrire l'hanno imposto
all'ammirazione e alla venerazione universale».
In occasione del
cinquantesimo anniversario sacerdotale di mons. Beran, il primate boemo
anch'esso a domicilio coatto (sarebbe stato liberato qualche anno dopo) Papa
Giovanni gli scrisse una affettuosa lettera. Vi si diceva, fra l'altro:
«Vorremmo tanto venire da te. In Cecoslovacchia come in altre regioni
continua un doloroso stato di cose contro la Chiesa. E in questo quadro
tristissimo, in questo piano nefasto, teso a sradicare la fede dal cuore dei
credenti, il nostro dolore si aggrava sempre di più perché nel
compiersi del tuo cinquantesimo anniversario di sacerdozio non ci è
permesso di rivolgerti la nostra voce e neppure di farti avere per via diretta
queste nostre parole di conforto».
Il card. Beran sarebbe stato
liberato dopo quattordici anni di segregazione, il 14 settembre 1963: sarebbe
toccato a Paolo VI, dare la porpora e il saluto decretati da Papa Giovanni al
primate testimone della fede.
Un altro testimone a cui Papa Giovanni
dimostrò sempre una particolare attenzione è stato il card.
Wyszynski, primate di Polonia. Si è già visto con che esplicita
volontà il Pontefice mettesse l'accento di questo rispetto, davanti a
tutti i fedeli, per il cardinale in apposizione tanto dei nazisti che dei
comunisti. L'ultimo incontro di Papa Giovanni con il card. Wyszynski avvenne,
come si è visto, il 20 maggio 1963, pochissimi giorni prima della morte
del Papa. Il 26 maggio la radio vaticana trasmetteva un affettuoso messaggio del
Papa ai cattolici polacchi, riuniti in pellegrinaggio al santuario di Piekary.
Vi si diceva, fra l'altro: «Ammirando con gli occhi dell'anima la grande
moltitudine costituita da uomini forti e probi, ricchi di fede, che conservano
intatta la vita spirituale come una preziosa eredità, sentiamo l'animo
nostro commuoversi e quasi abbracciarvi con un amore senza confini... Non ci
risparmieremo la fatica, fino a quando avremo la vita, perché si abbiano
sempre per voi sollecitudini e cure. Abbiate fiducia nell'amore della Chiesa e
ad essa affidatevi tranquilli, nella certezza che i suoi pensieri sono pensieri
di pace e non di afflizione».
Quando mons. Slipyi giunse dall'Ucraina
aveva trascorso diciotto anni tra carcere e segregazione. La mattina, la gioia
del Papa era stata così incontenibile che ne aveva voluto mettere al
corrente lui stesso i fedeli riuniti in piazza per il consueto incontro
dell'Angelus. Aveva detto: «Dall'Oriente europeo ci è giunta ieri
sera una toccante consolazione di cui ringraziamo umilmente il Signore come di
qualcosa che nei segreti divini può preparare alla Santa Sede e alle
anime rette nuovo slancio di fede sincera e di apostolato pacifico e benedetto.
Non turbiamo il disegno misterioso con cui Dio chiama tutti a cooperare,
radunando i fili di una tessitura che si compie con la grazia sua e col servizio
pronto delle anime innocenti, miti e generose. Voi leggete nel cuore nostro la
commozione e la tenerezza del momento».
Poi, la sera condusse l'esule
giunto da poco nella sua cappella privata. Ringraziarono insieme il Signore, poi
il Papa fece sedere mons. Slipyi, e gli scrisse su una sua fotografia:
«Felice il momento in cui Gesù chiama dalle lacrime alla gioia dello
spirito».
E Mindszenty?
Qualcuno ha voluto sostenere che Papa
Giovanni si sia disinteressato della sorte del primate ungherese, rifugiato
nell'ambasciata americana di Budapest fin dall'insurrezione magiara del 1956,
mentre invece inviò il card. Konig in visita.
In realtà tutti
sanno ormai che anche di lui Papa Giovanni s'interessò a lungo, e
ripetutamente, per sanare sia la sua posizione personale sia quella
dell'episcopato e del popolo polacco. Le cose sono rimaste sostanzialmente allo
stato di prima, almeno per quanto riguarda il primate prigioniero ma mancano
elementi obbiettivi di giudizio per concludere con qualsiasi parere su questa
complessa questione.
UN PREMIO PER LA PACE
Il 1° marzo 1963 i rappresentanti di 21 paesi
di tutto il mondo, non esclusa la Russia, si dichiararono favorevoli ad
attribuire a Papa Giovanni il premio internazionale per la pace della fondazione
Balzan. Papa Giovanni non rifiutò quel premio, che ebbe come primo
tramite il card. Montini; lo accettò come conferito ai suoi predecessori
e a se stesso.
In realtà Papa Giovanni volle approfittare anche di
quella occasione, dopo il batticuore della crisi di Cuba, per riporre ancora una
volta l'accento sulla necessità per tutti, di collaborare ad ogni costo
alla pace.
Papa Giovanni volle devolvere subito i milioni del premio stesso
ad una iniziativa di pace. Egli cercava in realtà di comunicare con tutti
coloro che intendevano edificare la pace, diffondere la pace, tenere aperto il
discorso concreto della pace.
Volle addirittura che la cerimonia della
consegna del premio, nella seconda parte, si svolgesse addirittura nella
basilica di san Pietro. E lì, davanti alla folla e ai rappresentanti di
tante nazioni, riprese il discorso della pace.
«La pace - disse -
vista nella luce di Dio e riflettentesi nel cuore degli uomini: quale
spettacolo, diletti figli, e quale delizia per lo spirito e per l'anima! Ma
è un edificio questo che si costruisce giorno per giorno e sopra solide
basi. Qui sotto la volta della basilica vaticana, vediamo innalzarsi nel cielo
di Roma la incomparabile cupola di Michelangelo. Ma badiamo a non dimenticare
che essa poggia su quattro enormi pilastri che penetrano profondamente nel suolo
sino a raggiungere la roccia: quella roccia di cui si parla nella conclusione
del discorso della montagna: "i venti soffiano ed infuriano contro quella casa,
ma essa non è crollata, perché era piantata sulla
roccia"».
Ebbene, la pace è una casa, la casa di tutti. Essa
è l'arco che congiunge la terra al cielo. Ma per innalzarsi tanto in
alto, abbisogna di poggiare su quattro solidi pilastri.
Sentiva ormai
d'essere lui stesso un pilastro della pace, uno dei documenti più
evidenti della beatitudine di Cristo: «Beati i pacifici, perché
saranno considerati figli di Dio». Al Quarticciolo, durante una visita
compiutavi il 2 marzo, aveva ammesso di sentirsi al centro dell'attenzione di
tutto il mondo. Aveva detto, alle centomila persone che non finivano di
acclamarlo: «Siamo al centro delle attese. I benefici della pace, che
toccano il mondo intero, ci sono familiari».
Quanto avrebbe ancora
potuto durare?
La sua salute era già minata. Il Natale 1962 aveva
dovuto subire notevoli mutamenti di programma. Poi, piano piano, una schiarita
aveva restituito fiducia a lui ed ai suoi collaboratori. Da parte sua continuava
a far coraggio più agli altri che a se stesso. Lui non aveva più
bisogno di coraggio. Era nella volontà di Dio, e in essa aveva già
trovato definitivamente la pace. La sua agonia non sarebbe stata che il
coronamento esemplare e per noi edificante, di quella tranquilla
accettazione.
L'umanità aveva trepidato, dopo Natale, per la sua
salute. Da tutto il mondo gli erano giunti messaggi di augurio. Egli non si
stupiva più. Non pensava che d'essere uno strumento, ed anche quei segni
di solidarietà e di amore non lo toccavano nella soddisfazione personale;
provocavano piuttosto la sua gioia di sacerdote, di pontefice, di padre. E
quando ringraziava la folla, o rendeva conto ad essa dello stato della sua
salute, lo sapeva fare con tutta l'intimità con la quale un padre, o
magari un nonno, si confida con i figli e i nipoti.
Durante la visita
natalizia ai bambini di un ospedale sul Gianicolo, disse: «Come vedete sono
in perfetta salute: non che sia pronto a fare una corsa, ma insomma... I medici
mi raccomandano di non affaticarmi, ma io mi sento pieno di energie. Abbiamo
celebrato tre messe stanotte, e dato che mi avete messo in condizioni di
pronunciare qualche parola, speriamo che questa basterà perché si
creda ai medici quando dicono che il Papa ha avuto qualche piccolo disturbetto
qua e là, ma si vede bene che non gli manca niente dalla parte dei sensi:
degli occhi, della lingua e specialmente dalla parte del cuore che è il
bene più prezioso».
Fu in quell'occasione che si disse che
«Papa Giovanni rifiuta di essere imbalsamato vivo». Era vero. Il card.
Leger si era lasciato andare ad una previsione pessimistica sulla salute del
Papa, previsione che purtroppo corrispondeva al vero. Ma Papa Giovanni, pur
sapendo di essere agli ultimi giorni della vita, non voleva, per nessun motivo,
guastare la gioia e la speranza dei figli. Avrebbe voluto che tutto continuasse
ad andare come aveva cominciato ad andare da qualche anno. Egli non chiedeva
né di vivere né di morire; chiedeva soltanto di continuare a
servire, fino all'ultimo, la Chiesa e gli uomini.
Sarebbe stato esaudito.
Poche altre morti, da qualche secolo, anche dentro la Chiesa, sarebbero state
così semplici, così universali, così cristiane. La sua
"umile gloria" era già stata evidente nella sua vita; ma la conferma
sarebbe venuta soprattutto dalla sua morte "ecumenica".
Il testamento
personale era già stato vergato da tempo, fin dai giorni della sua
consacrazione episcopale, e poi via via perfezionato e
rettificato
Ciò che gli premeva consegnare agli uomini, prima di
morire, era il suo testamento ecclesiale, l'atto più alto, geniale e
decisivo del suo magistero. Era la Pacem in terris, che sarebbe stata donata al
mondo il Giovedì Santo del 1963, meno di due mesi prima della
morte.
Papa Giovanni XXIII nell'ultimo anno del suo Pontificato